«Beati gli operatori di pace, perché saranno chiamati figli di Dio»
(Mt 5, 9)
Il Vangelo di Matteo apre il racconto della predicazione di Gesù con il sorprendente annuncio delle Beatitudini. In esse, Gesù proclama “beati”, cioè pienamente felici e realizzati, tutti quelli che agli occhi del mondo sono considerati perdenti o sfortunati: gli umili, gli afflitti, i miti, chi ha fame e sete della giustizia, i puri di cuore, chi si adopera per la pace. Ad essi Dio fa grandi promesse: saranno da Lui stesso saziati e consolati, saranno eredi della terra e del Suo regno. E’ dunque una vera rivoluzione culturale, che stravolge la nostra visione spesso chiusa e miope, per la quale queste categorie di persone sono una parte marginale ed insignificante nella lotta per il potere ed il successo.
“Beati gli operatori di pace, perché saranno chiamati figli di Dio”.
La pace, nella visione biblica, è il frutto della salvezza che Dio opera, è quindi prima di tutto un Suo dono. E’ una caratteristica di Dio stesso, che ama l’umanità e tutta la creazione con cuore di Padre ed ha su tutti un progetto di concordia e armonia. Per questo, chi si prodiga per la pace dimostra una certa “somiglianza” con Lui, come un figlio.
Scrive Chiara Lubich: “Può essere portatore di pace chi la possiede in se stesso. Occorre essere portatore di pace anzitutto nel proprio comportamento di ogni istante, vivendo in accordo con Dio e la sua volontà. […] «… saranno chiamati figli di Dio». Ricevere un nome significa diventare ciò che il nome esprime. Paolo chiamava Dio «il Dio della pace» e salutando i cristiani diceva loro: «Il Dio della pace sia con tutti voi». Gli operatori di pace manifestano la loro parentela con Dio, agiscono da figli di Dio, testimoniano Dio che […] ha impresso nella società umana l’ordine, che ha come frutto la pace”.
Vivere in pace non è semplicemente assenza di conflitto; non è neanche il quieto vivere, con un certo compromesso sui valori per essere sempre e comunque accettati, anzi è uno stile di vita squisitamente evangelico, che richiede il coraggio di scelte controcorrente. Essere “operatori di pace” è soprattutto creare occasioni di riconciliazione nella propria vita e in quella degli altri, a tutti i livelli: anzitutto con Dio e poi con chi ci sta vicino in famiglia, sul lavoro, a scuola, in parrocchia e nelle associazioni, nelle relazioni sociali ed internazionali. E’ quindi una forma di amore per il prossimo decisiva, una grande opera di misericordia che risana tutti i rapporti.
E’ quello che Jorge, un adolescente del Venezuela, ha deciso di fare nella sua scuola: “Un giorno, alla fine delle lezioni, mi sono accorto che i miei compagni stavano organizzandosi per una manifestazione di protesta, durante la quale erano intenzionati ad usare la violenza, incendiando macchine e gettando pietre. Ho subito pensato che quel comportamento non era in sintonia con il mio stile di vita. Ho proposto allora ai compagni di scrivere una lettera alla direzione della scuola: avremmo così potuto chiedere, in un’altra forma, le stesse cose che loro pensavano di ottenere con la violenza. Con alcuni di loro l’abbiamo stesa e consegnata al direttore”.
“Beati gli operatori di pace, perché saranno chiamati figli di Dio”.
In questo tempo appare particolarmente urgente promuovere il dialogo e l’incontro tra persone e gruppi, diversi di per sé per storia, tradizioni culturali, punti di vista, mostrando apprezzamento ed accoglienza per questa varietà e ricchezza. Come ha detto recentemente papa Francesco: “La pace si costruisce nel coro delle differenze … E a partire da queste differenze s’impara dall’altro, come fratelli. Uno è il nostro Padre, noi siamo fratelli. Amiamoci come fratelli. E se discutiamo tra noi, che sia come fratelli, che si riconciliano subito, che tornano sempre a essere fratelli” . Potremo anche impegnarci a conoscere i germogli di pace e fraternità che già rendono le nostre città più aperte ed umane. Prendiamoci cura di essi e facciamoli crescere; contribuiremo così alla guarigione delle fratture e dei conflitti che le attraversano.